La famiglia è il primo agente di socializzazione nel quale molti comportamenti e valori sono acquisiti e la violenza può essere il risultato di processi di apprendimento di modelli comportamentali non corretti. L’esposizione alla violenza nel contesto familiare può infatti indurre un bambino ad integrare comportamenti violenti nelle relazioni o può trasmettere la tolleranza e l’accettabilità della violenza stessa attribuendo ad essa una giustificazione morale. Basti pensare che non più di cinquant’anni fa le violenze condotte in famiglia nei confronti delle donne erano socialmente accettate perché la stessa cultura sanciva l’inferiorità giuridica e sociale della donna. Il fenomeno della violenza di genere deve essere ricondotto anche all’educazione al ruolo che la donna ha ricevuto nella sua adolescenza.
I percorsi formativi e di empowerment sono volti a fornire strumenti per l’educazione ai ruolo nel rispetto delle diversità di genere e per la gestione del conflitto. Esiste infatti un’ampia letteratura riguardo gli effetti del conflitto genitori-figli. Occorre considerare che il conflitto in sé non è violenza e non sempre è negativo: molto dipende dal modo in cui viene gestito. Un modo corretto è quando ciascuna parte in gioco ha la possibilità di agire il proprio ruolo, quando l’identità di ognuno è preservata, quando l’altro viene rispettato in quanto persona.
Il progetto insiste sul potenziamento dei ruoli genitoriali e delle capacità educative e sul coinvolgimento attivo delle famiglie favorendo occasioni di confronto e di mutuo aiuto. Vengono forniti strumenti per rendere le famiglie autonome e consapevoli del mainstreaming di genere. Si incentivano iniziative guidate di responsabilizzazione nella cogestione di luoghi appartenenti al territorio (scuole e parrocchie, biblioteche) al fine di facilitare le occasioni di dialogo inter e intrafamiliare.
